Anime nere di Francesco Munzi, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di

Gioacchino Criaco, è un film potente, ricco, profondamente radicato, capace di ingrandirsi parallelamente allo sviluppo del racconto. Quasi di accumulare, visivamente e non solo, la profondità e la complessità di un territorio che mescola miti e leggende, criminalità e tradizioni, fantasmi e violenza. Dopo il bellissimo Saimir, dopo Il resto della notte, Munzi realizza la sua opera più ambiziosa, forse più difficile (soprattutto per il contesto ambientale), frutto di un lavoro straordinario sul campo (tre anni per la stesura della sceneggiatura, riscritture, casting per tutta la provincia di Reggio Calabria e sopralluoghi), di una direzione degli attori d’altri tempi e figlio di una volontà quasi antropologica, esplorativa, indispensabile per portare a galla la “realtà” di personaggi così raramente vicini, prossimi. L’unico modo possibile, del resto, per trattenere così a lungo viva la tensione emotiva del film, incanalandola poi con vigore sorprendente verso un finale sconvolgente, ma mai così drammaticamente coerente. Un film doloroso, un Fratelli che quasi si spoglia delle riconoscibili esplosività ferrariane per immergersi in un territorio altro, fermo nel tempo, nella memoria. E nelle azioni. Una ciclicità disperata, che solo un gesto disperato potrà forse interrompere. La storia si chiude, non il film però, che non si esaurisce ma rimane vivo, aperto come una ferita profonda, anche dopo il termine della visione. Imperdibile.