Rifiutando la classica linearità del biopic, The Imitation Game cerca

di cogliere il senso di una vita attraverso l’articolazione di tre momenti temporali distinti ma tra loro fortemente intrecciati (anche grazie al montaggio estremamente fluido di William Goldenberg): 1927 alle Sherborne School nel Dorset, dove il 15enne Alan Turing è uno studente schivo e impacciato, destinatario del bullismo dei suoi coetanei ma anche delle premure di un compagno di classe, Christopher, che gli farà scoprire crittografia e orientamento sessuale; 1939-1945 al Bletchley Park di Buckinghamshire, in cui lavora con un’equipe di critto-analisti a un macchinario capace di smascherare Enigma; 1952 a Manchester, l’interrogatorio di polizia e la successiva incriminazione per atti osceni. Tre pezzi di vita che ne formano uno solo, cuciti insieme dal filo rosso di una tormentosa diversità e – conseguentemente – dall’ossessione per il segreto: l’Alan Turing impersonato da Benedict Cumberbatch si definisce e consuma a partire da un’ ineliminabile distanza dal mondo, ora orgogliosamente rivendicata (Turing tratta il prossimo con sdegno, non facendo mai mistero della propria intelligente superiorità) ora dolorosamente tenuta nascosta. Più dell’omosessualità, di lui spaventa l’inflessibile rigore matematico, la logica al di là del cuore, la freddezza della macchina. Persino l’unica donna capace di amarlo (la Joan Clarke di Keira Knightley) lo definirà un “mostro”. Sull’impenetrabile matematico Cumberbatch cuce addosso l’uomo dallo sguardo impaurito, l’andatura goffa, il timido balbettio e quella luce negli occhi, ma la parte relativa all’inventore, l’avventura della messa a punto del macchinario “Bomba” (che Turing chiama “Christopher”, tradendo una forte pulsione affettiva dietro la fascinazione per i congegni elettronici, i calcoli e i fili di rami), resta di gran lunga la migliore mentre quella dedicata alla persecuzione è sbrigativa e stereotipata. La regia di Tyldum predilige i movimenti di macchina, a sottolineare la frenesia di una tragedia che incombe e l’affannosa corsa contro il tempo per rovesciarne le sorti. Briosa la colonna sonora di Desplat, tutta archi e piano. La luce di Oscar Faura propende invece per la scala di grigi, ma le scene di guerra virano inspiegabilmente sul blu e appaiono vagamente posticce. Il titolo, The Imitation Game, fa riferimento a un libro mai scritto da Turing, in cui si sarebbero teorizzate affinità e differenze tra il pensiero umano e quello della macchina. Ma può anche riferirsi beffardamente all’unico gioco che vide Turing sconfitto: quello dell’imitazione e del camuffamento sociale che, vi fosse riuscito, gli avrebbe salvato la vita.